Keja Ho Kramer - CromaSpansione


Sarà un’Arca. Oppure un Titanic. Tutto verrà salvato. Oppure niente si salverà. Qualunque sia il destino della barca, comunque sia il mare, il gesto del tempo, il mettersi nudi di fronte al Tempo, è l’unica opzione possibile, è la prova residua di un’altra sopravvivenza. Keja Kramer, pensando al dopo, si è data il compito infraordinario di registrare una specie di cromogenesi, una cosmogonia a frammenti in cui le derive musicali del colore collidono con le piante, ci scivolano sopra, mettono in mostra qualcosa dell’invisibile. Nel Settecento l’impulso a fondare una Scienza Nuova aveva generato esplorazioni seminali, il Goethe della botanica archetipica e della teoria dei colori è stato solo un esempio, un’esperienza tra le tante possibili. Il punto di partenza di Kramer è lo stesso: l’occhio è un organo potentissimo e vertiginosamente limitato. Quando ci si avvicina troppo alla trama della materia qualcosa si inceppa, la vista fallisce, e in questo fallimento o si rinuncia a vedere o si decide di fallire meglio. È proprio qui che comincia CromaSpansione, nell’interfaccia vaporosa tra limite biologico e limite meccanico, tra una retina generata da milioni di anni di evoluzione e l’obbiettivo analogico di una macchina fotografica. Che cosa accade, dunque, in questo terreno di osmosi? Che cosa produce l’eccessiva prossimità dello sguardo e l’impatto perturbante con l’invisibile? Per elaborare una teoria dei colori, gli scienziati generalisti dei secoli passati avevano usato prismi e marchingegni rudimentali. Immaginiamo allora di avere un prisma gelatinoso, instabile come il mondo descritto dalla fisica quantistica e come l’Antropocene, con il suo alveare di collassi. Che cosa accade se guardiamo delle piante in questa terra di nessuno dove il tempo accelera e rallenta, dove l’ora del vespro graffia e accarezza, dove geologia e biologia delle sensazioni non hanno più una grammatica? Il prisma gelatinoso fa balenare tinte inesistenti, scompone la luce in gamme che sono solo inventate, registra il Cromo come traccia in superficie del Crono. Mentre la natura si organizza intrinsecamente, mentre una matematica sacra geometrizza il caos e rallenta il decadimento entropico, la cenere molecolare che noi siamo, come specie, può illudersi di fissare un ABC del vedere, del sentire. Lo facciamo da almeno due milioni di anni ma gli esiti delle nostre esplorazioni sono ancora più effimeri della carne. A volte, però, in qualche fortunato incrocio di coincidenze, riusciamo a farci viaggiatori del tempo: le cellule di una foglia diventano le pulsazioni di una nebulosa, le scorze di un carciofo, le piume di un cardo diventano alieni per una mitopoiesi non umana, un pezzo di prato imita l’Illuminazione dei mistici, due corpi di donna fanno cosmo a sé. Il lavoro di Keja Kramer, le sue “tavole naturali”, sono questa ipotesi di soglia: entrare nell’Arca, nel Titanic, e lanciare verso il dopo qualcosa che potrebbe salvarci. Nel frattempo, eccoci qui, a cercare di capire. 


Matteo Meschiari, Palermo, primavera 2022